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giovedì 18 novembre 2010

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[EVANGELIUM VITAE] «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,9): un'idea perversa di libertà

giovedì 18 novembre 2010
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Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici cause che lo determinano. La domanda del Signore «Che hai fatto?» (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano.
Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.
In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.
Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.
Dall'altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di «conviventi», le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?
Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?
Le possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere «indisponibile»? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle «ragioni della forza» si sostituisce la «forza della ragione».
Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov'è Abele, tuo fratello?»: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è «guardiano di suo fratello», perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.
C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.
In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.
È quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale: l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato: il «diritto» cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la «casa comune» dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni.
Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?». Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale.
Rivendicare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).

(tratto dall'EVANGELIUM VITAE)

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